Ecosistemi come personalità giuridiche.

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Di recente, la notizia sul riconoscimento dei diritti di “persona giuridica” per il fiume Whanganui in Nuova Zelanda, prima, e per i fiumi Gange e Yamuna in India, poi, ha riportato il dibattito culturale internazionale sui temi dei diritti degli esseri viventi (nell’accezione più ampia del termine), dell’etica e della responsabilità.
Deliniamo uno dei tanti paradossi contemporanei in materia di diritti degli esseri viventi: nell’epoca in cui si proclama l’inviolabilità dei diritti e dei doveri dell’uomo e di tutti gli esseri viventi, e nel contempo si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto alla vita viene sovente calpestato.
Fa scalpore sapere che gli ecosistemi, come gli stessi fiumi, ma anche come le foreste (Te Urewera, sempre in Nuova Zelanda), costituiscano il primo caso di ecosistemi riconosciuti come personalità giuridiche, e quindi come realtà armoniche ed organiche.
Perché una decisione del genere deve sorprenderci? Non dovrebbe essere piuttosto un dato di fatto costituente l’essere vivente in quanto tale? Ebbene, ciò, invece, ha costituito una vera e propria “rivoluzione culturale” rivestita del senso del rispetto ormai perduto da parte di un’umanità sempre più votata a primeggiare sopra ogni ragionevole pudore.
Gli indigeni nativi sono riusciti a difendere il concetto di rispetto per l’essere vivente fiume e foresta. A dispetto del tanto lusingato progresso, i Maori della Nuova Zelanda hanno fatto intendere al mondo intero che la vita delle tribù è imprescindibile dal loro radicamento alla terra in cui vivono da sempre, e dal benessere dell’ecosistema che li ospita, di cui sono custodi e non proprietari.
I pakeha (gli indigeni Maori) hanno dato una lezione di civiltà al mondo intero, tanto che anche il governo di Nuova Delhi ha valutato essenziale, fondamentale ed urgente cominciare a porre rimedio alla ingiustificabile violazione del diritto alla vita del fiume Gange e del suo affluente, oramai ridotti a soggetti comatosi irreversibili.
E, dunque, accanto alla presunta (o vera) caduta del fondamento filosofico sul quale poggiano anche i diritti degli esseri viventi – come in particolare il diritto alla vita – così come dinanzi al presunto nichilismo che ha pervaso la cultura attuale, l’uomo ha comunque continuato a chiedersi in che modo sia possibile perpetuare quella verità secondo la quale: si ha sempre bisogno di regole, in quanto non tutto ciò che si vorrebbe fare è possibile fare o è lecito fare. È da questo punto inconfutabile che subentra ancora una volta il riferimento al senso di responsabilità che, malgrado tutto, l’uomo proverebbe, conducendolo a riflettere sull’opportunità dell’azione immediata ed attuale, nonché sulle conseguenze della stessa per le generazioni future.
La riflessione etica, in sostanza, deve vertere sul fatto che l’uomo è oramai artefice e detentore di ogni segreto. Ecco perché, parallelamente alla presa d’atto della laicizzazione dei costumi e delle culture, si richiede maggiore competenza riguardo alla sfera di attività dell’uomo e riguardo alla empiricità della sua condotta. Così si capisce che il “peccato” non è più giudicato da Dio, ma dallo stesso uomo.

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