Il valore del silenzio.

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Immagino il silenzio di un paesaggio desertico o quello degli abissi marini oppure il carattere muto degli eremi. Odo il silenzio rancoroso di persone ferite da una delusione, di coloro che restano afflitti dalla vita, di esistenze assopite nella vastità di una solitudine quieta. Alcune volte ascolto il silenzio della prudenza, del pudore e del rispetto, della bontà e della pazienza; altre ancora mi giungono mutismi dettati dalla rabbia e dal rifiuto.
Sono tutte possibili connotazioni del silenzio. Ma può il silenzio essere immaginato, ascoltato, udito? Che silenzio rappresenta quella dimensione in cui l’atteggiamento acquisito non fa altro che parlare? Quante volte mi sono imbattuto in silenzi “parlanti” o in parole “silenti”! Quante volte ho preferito non parlare per restare in religioso silenzio ed ascoltare. Quanti discorsi sono stati fatti dalla mia mente e quanto frastuono ha ingombrato il mio cervello lasciando che i pensieri più svariati si dimenassero al suo interno!
La verità è che l’uomo non può sperimentare una dimensione assolutamente muta, afona o insonora del silenzio assoluto. Il vuoto assoluto di pensieri e parole non è un fattore umano, se non al cospetto definitivo della morte.
Cosicché c’è un silenzio cui è dato intingersi nella panacea dei sensi, ma è provvisorio e limitato alle parole, alle emozioni, ai sentimenti che esso esprime. Il lessico del silenzio costituisce una declinazione universale di silenzi, ma ciascuno di essi vale tanto quanto le parole non espresse con la voce.
Ci è dato, a noi esseri umani, arrivare ad una forma di “margine” del silenzio, ossia una quiete poco poco al di là dei suoni e delle parole, ma sempre appena al di qua del limitare della mutezza.
È così che, per apprezzare il silenzio, bisognerebbe stare sulla “soglia” del silenzio. Quando, a volte, è preferibile non prendere parte, appartarsi, starsene in disparte, è allora che si stacca la spina e si abbassa il volume della propria presenza. Sono i momenti in cui la linea del tacitarsi ha già tessuto le fila delle proprie parole intessute con quelle d’intorno. Il proprio restare zitto, in questo caso, non pretende di imporsi, piuttosto lascia intendere tutta la narrazione che le nostre parole vorrebbero raccontare. Ecco, il silenzio, in questo caso, è un vero frastuono: è un suffragare di fatti e stati d’animo enunciati dalle parole non dette.
Allora, forse, per assaporare il senso vero del silenzio sarà meglio constatare che attutire i rumori di un tacere conciliante ed assorto farà sì che le tempeste di suoni e parole fluttuanti nella nostra mente in fase di “attesa” sarà di gran lunga una vera clausola di salvaguardia della piena padronanza di sé e della retta conduzione di sé. Esse devono riconoscenza alla meditazione che quel tipo di silenzio autentico consente di cogliere grazie a tutte le consonanze e risonanze che i silenzi personali animano in noi.
Praticamente, non c’è saggezza senza silenzio. E non c’è silenzio laddove non ci sia capacità di frequentare, con una certa assiduità, la morbidezza accogliente e benevola dell’incontro con se stessi in una saggia silente meditazione. Il silenzio, quello vero, sa di non sapere nulla se non che vale la pena di essere saggi.
“Il silenzio è il perfettissimo segno della felicità, e sarebbe ben poca cosa se la potessi dire”. (W. Shakespeare).

 

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